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fino a che furono destinati due frati che ne avessero cura giorno e notte. A don Ercole Salviati che gli aveva do– mandato come potesse essere allegro con tanti mali, ri– spose « che il suo male non gli dava fastidio ». Ma poi, fattolo avvicinare al suo giaciglio, gli bisbigliò all'orec– chio: « Sai che mi dà pena ? Mi dà pena che questi frati patischino per me». Quantunque egli, nei tempi passati, avesse assistito numerosi cappuccini malati nell'ospizio, questo tuttavia, a motivo della sua angustia, non si prestava per la de– genza d'un infermo grave come era lui. E poi fra Crispino era convinto di dover morire a Roma, dopo aver lucrato l'indulgenza dell'Anno Santo 1750. Cosi aveva detto a piu d'un visitatore. Perciò il padre guardiano preparò il terreno, cercando di avere il consenso di « alcuni princi– pali della città», i quali lo lasciarono partire « segreta– mente e senza che il popolo se ne avvedesse ». Parti dal convento, dove era tornato per qualche giorno, alle prime luci dell'a1ba del 13 maggio 1748, su un calesse messo a sua disposizione dalla famiglia Falza– cappa, di cui una volta in Tarquinia era stato ospite e che, a sua insaputa, ne aveva fatto eseguire il ritratto. Contro ogni attesa, a Roma si rimise un poco in salute. Egli vi era già conosciuto. Un teste riferi che, nel 1744, al suo arrivo in convento, aveva visto « scate– narsi tutta Roma». Ovviamente, la fama ve lo aveva preceduto già allora. Fra Crispino un giorno si lamen– terà con il p. Angelo Antonio da Viterbo: « Oh Dio! Io non so come tanta gente venga a me d'intorno: io non sono santo, io non sono profeta... ». Cominciò la proces– sione al convento di nobili e di gente del popolo e, cosa ben piu penosa per il buon vecchio, ebbero inizio pure le sue visite agli infermi in lungo e largo per Roma. Molti mandavano la carrozza, ma egli, per quanto poteva, pre- 38

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