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MARIA DI NAZARETH, EUCARISTIA ED ESISTENZA SACERDOTALE 763 gione può ragionevolmente riconoscere (e qui sta la sua dignità) di essere di fronte ad un mistero che la supera. Non da noi possiamo dedurre il mistero di Cristo. È la nostra ragione che ci fa esclamare: è ragionevole riconoscere che è incom– prensibile. Al contrario, è da Cristo che possiamo ultimamente scoprire chi siamo, quale sia il nostro compito e pertanto quale sia il senso della nostra vita. Noi non possia– mo dedurre la nostra vocazione, sia in senso generale che particolare, della analisi della nostra condizione umana. Al contrario è la vocazione a darci la più grande ipotesi positiva per affrontare il rapporto con la realtà quotidiana e capace di dare senso autentico alle nostre esistenze. Infondo è questa la grande lezione intramon– tabile di Gaudium et Spes 22: In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (28) (Rm 5, 14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. 3. In definitiva, quando rinunciamo a fare della nostra vita la realizzazione del nostro progetto, riconoscendo il primato dell'iniziativa di Dio, è allora che la no– stra vita diventa grande e significativa per noi e per tutti. Qui la posizione di Maria sta veramente al cuore dell'esistenza cristiana e paradigma di come l'esistenza debba accogliere la propria chiamata e viverla approfondendola nel tempo. "Av– venga di me secondo la tua parola" è il riconoscimento di una grazia indeducibile, ma nello stesso momento è rinuncia a decidere di sé, a fare della propria vita la realizzazione solipsistica del proprio progetto. Qui si manifesta la cosa più grande che possa fare un uomo: essa non consiste nell'autoprogettazione, ma nell'obbe– dienza nei confronti di Dio. Qualsiasi opera che un uomo possa fare è destinata a rimanere nel carcere della propria finitezza. Cio che rende eterno un atto dell'uomo non e il "cosa fa" ma il "per chi lo fa". L'obbedienza a Dio eternizza l'umano, perché pone la propria esistenza nelle mani dell'Eterno, che entra nel tempo e diventa un determinato tempo 19 • Pertanto, l'affidamento a Dio è l'affidamento al Dio incar– nato, al Dio presente nella storia. Così afferma von Balthasar, parafrasando Tom– maso d'Aquino: 19 Cf. Fides et Ratio, 12.

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