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FEDELE DA FANNA, ANTONIO M. DA VICENZA E IL BREVILOQUIO 657 Fedele perdona, ma si ribella a gran voce al sopruso perpetratogli: se con gli altri ha taciuto, masticando amaro, con Bernardino può parlare e apertamente e manifestargli il suo profondo e umano significato di carità; certo carità è amore, ma prima di tutto è non rubare, dire la verità, riconoscere il giusto diritto dell'al– tro. Scrive infatti Fedele: Perdono tutto al p. I. Antonio per amore di Dio, dell'anima mia, di S. Bonaventura e di Lei; ma devo riservare i miei diritti, ai quali io non potrei rinunciare che rinun– ciando di fare l'edizione, e di ristampare il Breviloquio. Vi sono, Rev.mo Padre, certe tentazioni, certi sacrifici, aggravati da tali circostanze antecedenti, concomitanti e conseguenti, che della violenza delle prime e del peso dei secondi, è testimonio sola– mente Iddio e l'anima che quelli e quelle sente. E pare che essa stia per soccombere e vi soccomberebbe senza l'aiuto di Dio. Mi sono trovato da due settimane in questo caso rispetto al p. l. Antonio. Per lettera non si può sempre dire tutto, e riuscire ad intendersi, ma se mai avrò occasione di parlarle, vedrà ch'io aveva ragione. Le avevo detto io nel Belgio: per carità, Rev.mo., non permetta la ristampa del Breviloquio, perché constandomi che il p. I. Antonio non lo comprende bene, io, senza volerlo, sarò in lotta con lui; e, nel mio cuore soggiungeva, forse per non fare e perpetuare in Provincia una divisione, sarò costretto di abbandonarla. Era lieto intendendo che il p. I. Antonio s'era limitato a citare o portare dei brani tolti dalle opere del S. Dottore, ed aveva piacere che il Breviloquio, se ha degli inconvenienti, fosse però opportunissimo pel Centenario. Ma quale non fu il mio dispiacere quando vidi il Breviloquio, ed in– tesi altre cose, e si ebbe ricorso ad un sotterfugio non degno della verità e d'un religio– so, quando lo stesso p. Giovanni s'era espresso con altri dicendo che il p. I. Antonio poteva servirsi delle mie tesi essendo già cosa pubblica perché fatte e date agli studen– ti, e quando stretto dalle mie ragioni, disse a me stesso che dall'essersene servito a me non ne veniva danno, e che il p. I. Antonio fa così con tutti gli altri autori, cioè se ne serve in questo modo. Io gli risposi che coi libri stampati è permesso di ciò fare, ma non già colle cose inedite di chi è vivente ed ha bisogno di servirsi di quelle. E mentre si contestava almeno indirettamente il fatto, negarlo di poi col dire che aveva tolto quelle tesi dal Breviloquio, e che come di là le aveva cavate io, così anche altri lo pote– vano. Che il potessero è vero: che l'abbiano fatto non è vero, che siensi serviti delle mie tesi, rovinandole, è certo: e negare d'averlo fatto, non è onesto. E tuttavia per non fare scandalo io dovetti friggermi entro me stesso, e non parlare né a S. Michele né qui, quanto avrei potuto confondere assai il p. l. Antonio. È vero, Rev.mo Padre, che la carità, la modestia, il pudore devono andare inanzi ad ogni altra cosa; ma mi permetta di farle osservare, ciò che Ella sa, che il primo grado, negativo, della carità, della modestia, del pudore, è il non rubare, il non negare la verità. Il chiedere una restituzione non è contro la carità e la modestia. Il p. I. Antonio non vuole farla: sia, e

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