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BONAVENTURA E MALEBRANCHE 223 amore, creatore libero e gratuito del mondo, Bonaventura non poteva non salva– guardare la pluralità ontologica delle creature e la loro efficienza causale, espressio– ne del gesto liberale divino. Qui la comunione tra l'uomo, mondo e Dio, per quan– to spinta innanzi, non porta mai all'identificazione, né si trova sul percorso che porta a quest'esito 92 • Il primato della libertà esige anzitutto la salvaguardia dell'al– terità. Essendo espressione di bontà, non di potenza, il mondo risulta l'insieme di quelle creature che Dio ha voluto e custodisce nell'essere. L'epilogo non è di segno monistico, sicché l'attestato soggettivo della pluralità dei protagonisti deve essere accolto come primo inevitabile epilogo del discorso, fondato sul primato della libertà creativa. In fondo, l'aspra critica ad Aristotele, negatore delle idee di Plato– ne (qui execravit ideas Platonis ), si risolve nella difesa della creazione intelligente da parte di Dio, il quale, come un artista, ha progettato e realizzato il mondo che poteva non creare. La critica ad Aristotele si risolve nella rivendicazione della li– bertà della creazione, intesa non solo come l'atto che dà l'essere, ma anche come scelta tra i mondi possibili, al punto che ogni creatura porta in sé il sigillo della sua volontà. Senso e pluralità stanno insieme. Privilegiando la libertà, Bonaventura è per la centralità del senso e la salvaguardia irriducibile dei molti. Malebranche fa un'altra scelta, sulla scia di Cartesio, a favore del pensiero pensante, con l'intento di garantire la plausibilità delle idee e misurarne l'efficacia causale. La prospettiva è di segno razionale, nel senso che vuole individuare il ruo– lo e l'affidabilità delle idee 93 • La preoccupazione è di capire quale sia la razionalità 92 De scientia Christi, q. 4, ad 16, (ed. Quaracchi, V, 25): "Ratio aeterna (...) movet ad cognoscendum (...) non specialiter de se, sed generaliter in statu viae; et ideo non sequitur quod ipsa sit nobis nota secundum se, sed prout relucet in suis principiis et in sua generalitate". 93 A. del Noce, sempre acuto e originale, non pare condivida questo assunto che, sia pure in forma esasperata, è stato sostenuto da Chestov nell'opera Atene e Gerusalemme (orig. 1937, trad. Milano 2005), dove critica aspramente L'esprit de la philosophie médiévale di É. Gilson per lo spazio concesso alla razionalità, quale tratto proprio della filosofia cristiana. Cf. Gilson e Chestov, in Archivio difilosofia 2-3 (1980) 315-326. Del Noce rileva che Chestov risolve il pec– cato originale nel 'sapere', nel senso che si è trattato della tentazione del sapere (p. 322), quasi che sotto accusa sia la ragione. Ma non è forse così? Certo, non è la ragione l'incriminata, bensì il 'primato della ragione', il cui sviluppo porta al razionalismo per coerenza interna e in ultimo alla gnosi come sapere salvifico. Ebbene, Del Noce non è d'accordo con la premessa, e cioè che è in discussione il primato della ragione, ma è d'accordo con la conclusione, se è vero che egli acu– tamente annota: "Se la filosofia cristiana ha una storia, non è quella dell'inveramento delle posi– zioni opposte, né tanto meno della de-ellenizzazione (e così ribadisce il suo dissenso), ma della
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