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<licamente può essere ancora esistente, almeno in quanto alla sua capacità a risorgere. Si dice che allora quell'ente è in quiescenza, ed, eventualmente, può esser restaurato, senza una nuova concessione di personalità giuridica. Che se la cessazione dell'esistenza è diventata un fatto giuridico, allora occorre un nuovo riconoscimento di per– sonalità. A norma del can. 102 § r, automaticamente una persona mo– rale si considera giuridicamente estinta, passati i cento anni dalla sua cessazione di fatto. Nelle persone morali collegiali detta cessazione di fatto ha inizio quando cessa di vivere l'ultimo membro del col– legio, poichè l'attuale legislatore canonico, seguendo un principio desunto dal Digesto (n8) e ammesso dalla dottrina canonistica dei decretisti e decretalisti (n9), sancisce che « si vel unum ex personae moralis collegialis membris supersit, jus omnium in illud rectdit >> (can. 102 § 2). È da chiarire che quell'unico membro superstite non costituisce più un collegio, ma gode ancora di tutti i diritti del- 1'ente e nello stesso tempo è tenuto ad adempiere, per sè o per altri, a tutte le obbligazioni di esso, almeno nei limiti delle possibilità. La « quiescentia >> centenaria di una persona morale, legittima– mente o illegittimamente di fatto estinta, è una disposizione di natura prettamente canonistica, non essendo ammessa nè in diritto roma– no (120) nè, in genere, nelle legislazioni moderne, compresa quella italiana. I più antichi canonisti unanimamente affermavano che, fatta eccezione del caso di soppressione da parte della legittima autorità, una persona morale non si estinguesse giuridicamente per la sola cessazione di fatto, anche se questa si fosse protratta per un tempo lunghissimo. A dire del Baldus ( 121), tale persona mora.le estinta « sine ullo corpore materiali vivit quodam inteUectu et exstat anima, ut ita dicam, sine corpore, et retinet omnia privilegia. Et ratio diffe– rentiae est, quia quando de iure destruitur, titulus cassatur, sed facti calamitas (ut si de facto opprimatur a praedonibus, latronibus (nS) D. III, 4, 7, 2. (n9) Vedili citati in MrcHrnLs, op. cit., p. 543, nota 2. (120) D. III, 4, 7, 2. Cfr. D'ANGELO, lus Digestorum, I, n. 484, a. (r2r) In Marg. ad Innoc., v. civitas; citato dall'OJETTr, op. cit., p. r40.

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